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* il gioco del nonno
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danielegr
Dio maturo
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MessaggioInviato: 30 Ott 2014 09:50    Oggetto: Rispondi citando

Girovagando su Google Earth sono capitato in un luogo che mi ricorda anni passati, ma molto passati. Direi che era il 1941 o pressappoco, quindi io avevo quattro o cinque anni. Il luogo al quale mi riferisco è nelle Marche, a Civitanova Alta. Ero andato in vacanza da parenti che avevano una villa che mi piaceva moltissimo, San Domenico. Però, ricordiamo che stiamo parlando dei primissimi anni '40, non c'era l'acqua corrente e non c'era l'elettricità, per non parlare del telefono. Per l'acqua, per bere e per lavarsi, provvedevano le donne: andavano al pozzo, riempivano il secchio, se lo ponevano in testa e lo portavano in casa. In cucina, se ricordo bene, c'era un grande mastello nel quale veniva versata l'acqua contenuta nei secchi. C'erano diversi mestoli appesi sopra, che venivano usati sia per bere direttamente dal mestolo che per gli altri usi: riempire le catinelle con le quali ci si lavava, lavare i vasi da notte, i piatti, e via dicendo. L'acqua, come già detto, era del pozzo, non esisteva nessun controllo di potabilizzazione e malgrado quell'igiene che oggi farebbe inorridire, i miei parenti erano abbondantemente sopra gli ottant'anni, e sono morti a quasi novanta.
Alla mancanza di elettricità si suppliva con le candele o meglio, con le lampade a petrolio e a olio. Ricordo un lampada ad olio stupenda a quattro bracci: veniva messa in centro alla tavola e illuminava benissimo.
Ma la cosa che più mi è rimasta in mente è stata la giornata del bucato: Era stato caricato un carro con tutta la biancheria, aggiogate un paio di vacche e viaaa verso il fiume (il Chienti, sarà stato a quattro chilometri circa). Lì le donne lavavano (a mano, naturalmente) tutta la biancheria immergendosi in quelle acque che, sebbene fosse estate, non erano certo molto calde. La biancheria poi la stendevano ad asciugare sul prato. Alla sera, la ritiravano asciutta e ancora sul carro si ritornava a casa.
In pratica un giorno intero dedicato al bucato, con grande gioia di noi ragazzini ai quali non pareva vero di poter correre, giocare sul prato, gridare, essere liberi, insomma.
Le donne ovviamente la vedevano da un altro punto di vista: doveva essere molto faticoso lavare a mano montagne di biancheria, stare con i piedi a mollo e anche stare attente che i ragazzini non si facessero troppo male...
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MessaggioInviato: 12 Mar 2015 11:01    Oggetto: Rispondi citando

la cartolina


lo scritto

Frugando nei ricordi di mia moglie sono emerse una dozzina di cartoline “d'epoca”. Ne ho per ora fotocopiate solo quattro e ve le sottopongo.
Cosa emerge da queste cartoline? Innanzitutto l'accurata scrittura, sembrano quasi un esercizio di calligrafia. Sono tutte indirizzate alla signorina Enrichetta Gerosa, a vari indirizzi, fra i quali un albergo di San Remo. Curiosità: viene indicato San Remo come in provincia di Porto Maurizio, infatti la provincia di Imperia, che assorbì Porto Maurizio, Oneglia e una decina di altri paesi, venne costituita nel 1923, mentre le cartoline che ho vanno dal 1912 al 1920.
Sono firmate da un certo Ezio (in una sola si firma anche con il cognome: Rizzi).
Quindi, con un po' di fantasia, si può ricostruire un lungo corteggiamento da parte di Ezio verso Enrichetta, durato almeno otto anni, nei quali Ezio di rivolge ad Enrichetta sempre con il “Lei” . La situazione sembra cambiare solo durante l'Agosto del 1920, nel quale si passa finalmente al “tu” (Pensandoti –13/8/20, Ricordandoti – 11/8/20 e un audacissimo “Desiderandoti” - 14-8-1920) In una delle cartoline che non ho fotocopiato di vede il timbro sella censura militare (10 Giugno 1917), quindi Ezio dovrebbe aver combattuto, o almeno essere stato militare, durante la Grande Guerra.
Mia moglie ricorda, anche se piuttosto vagamente, che i due si siano poi sposati e abbiano avuto una figlia che negli anni '40 faceva l'assistente nella colonia nella quale era mia moglie.
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MessaggioInviato: 30 Apr 2015 16:47    Oggetto: Rispondi citando

È il periodo della dichiarazione dei redditi, modello 730, Unico o altro: poi la consegna al CAF o agli altri uffici preposti e, almeno per i lavoratori e i pensionati la cosa finisce lì: il conguaglio a debito o a credito viene fatto direttamente da chi paga lo stipendio o la pensione. Le imposte vengono trattenute mese per mese, e quindi al momento della dichiarazione dei redditi, di solito, non ci sono conguagli molto ingenti. E non c'è modo (o almeno io non lo conosco) di sapere quanto ha dichiarato il tuo vicino di casa, quello che si da arie da gran signore ma che spesso riceve visite da uno che ha tutta l'aria di un Ufficiale Giudiziario, oppure quell'altro che tutti immaginiamo che evada la tasse, e che cambia la macchina ogni anno…
Una volta invece (anni '60 e '70) era un po' diverso. Vado a memoria, perché non trovo descrizioni semplici (un po' anche perché non ho molta voglia di cercarle, l'argomento “imposte e tasse” mi è sempre stato antipatico…). Ricordo però che a quei tempi le imposte erano due, la prima era la Ricchezza Mobile, che alcuni chiamavano anche “Miseria Stabile” e una Imposta Complementare. Anche qui venivano effettuate delle ritenute, ma erano solo parziali: il conguaglio avveniva in sede di dichiarazione dei redditi, con quella che era chiamata la “dichiarazione Vanoni” e che consisteva nella compilazione di un modulo piuttosto farraginoso. Consegnato il modulo bisognava attendere che le imposte venissero iscritte a ruolo e che venisse emessa la relativa cartella esattoriale.
Poi c'era l'Imposta di Famiglia. Era il tributo dovuto ai Comuni e avrebbe dovuto essere basato (vado a memoria, per il motivo detto sopra) sul tenore di vita da cui si sarebbe dovuto desumere il reddito. Se ben ricordo qui non c'era una “dichiarazione”, ma una specie di concordato con il Comune. Si andava a discutere con un funzionario, che di solito non lasciava molto spazio alla discussione, stabiliva l'imponibile sulla base di qualche dato che poteva avere o che veniva portato dal contribuente stesso. Di solito si portava uno statino dello stipendio, avendo cura di scegliere quello con il totale più basso – di solito la tredicesima. Ma il funzionario, che non era nato ieri, conosceva benissimo il trucco e si comportava di conseguenza. Anche qui c'era l'immissione in ruolo, l'emissione della cartella esattoriale e infine il pagamento.
C'era però anche la pubblicazione dei ruoli: i Comuni esponevano all'Albo del Comune l'elenco dei contribuenti con gli importi concordati, e questo elenco era spesso pubblicato sui giornali locali. Quindi le curiosità di cui parlavo nel primo paragrafo si potevano soddisfare a patto di riuscire a fendere la folla che di solito si accalcava sotto all'Albo Comunale.
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MessaggioInviato: 11 Mag 2015 16:53    Oggetto: Rispondi citando

Le “Stelline”.Pochi giorni fa in televisione ho sentito un ministro, mi pare Alfano dire che uno degli obiettivi dei black bloc era il Palazzo delle Stelline. Per un milanese è facile capire, ma credo che per tutti gli altri sia un po' ostico. Innanzi tutto chi sono le Stelline? Sono delle bambine o ragazze orfane, l'equivalente femminile dei “Martinitt”, allevate in un collegio la cui fondazione risale al 1515. Hanno preso il nome di “Stelline” dalla chiesa di Santa Maria della Stella e il Palazzo delle Stelline era sorto al posto di quella chiesa/convento che era gestita dalle monache Benedettine. Quel palazzo che oggi ospita la Fondazione Stelline, che organizza mostre, convegni e altri eventi, fra cui studi su Leonardo , era ed è in Corso Magenta, quasi di fronte alla Chiesa di Santa Maria delle Grazie, quella che ospita il Cenacolo Vinciano.
Dicevo che l'equivalente maschile delle Stelline sono i Martinitt: entrambi sono tra i simboli di Milano e non c'è milanese che non li ami. I Martinitt, in particolare, che esistono fin dal 1532. Anche qui il nome di “Martinitt” deriva da una chiesa, la chiesa di San Martino che era adiacente ai locali concessi da Francesco Sforza. I Martinitt hanno numerosi meriti nella storia di Milano: per esempio durante le Cinque Giornate parteciparono attivamente alla rivolta, sia come portaordini che proprio come combattenti.
Ecco i nomi di alcuni Martinitt che si sono particolarmente distinti nell'industria o in altri campi.
Angelo Rizzoli, Leonardo Del Vecchio, Edoardo Bianchi, Roberto Cozzi,
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MessaggioInviato: 08 Set 2015 11:35    Oggetto: Rispondi citando

Sono andato in un negozio a comprare un paio di articoli e mentre la commessa era alla caccia di una calcolatrice per fare la somma dei due importi e battere lo scontrino, io ho fatto la somma a mente e glie l'ho comunicata (niente di speciale, erano cifre semplici e ai nostri tempi ci si sarebbe vergognati a non riuscire a fare un'addizione così banale). La commessa, naturalmente, non si è fidata, ha ripetuto l'operazione sulla calcolatrice finalmente conquistata e, visto che gli importi concordavano mi ha guardato come se io fossi un fenomeno matematico, cosa assolutamente non vera.
Così mi è venuto in mente di parlare un po' delle calcolatrici dei miei tempi, diciamo dal 1950 in avanti. Il primo impatto l'avevo avuto all'Istituto Tecnico per Ragionieri, dove ci tennero alcune lezioni sull'uso di una calcolatrice manuale che si basava sulla rotazione di una manovella e che riusciva a fare perfino le divisioni! Questa dell'immagine è abbastanza simile.
link

Al lavoro invece (Agosto 1954) trovai altre macchine: la marca era Monroe e facevano, oltre alle somme, anche le sottrazioni. Questo era piuttosto raro, di solito quelle macchine, sia elettriche che manuali, si limitavano alle addizioni: se ci si accorgeva di aver inserito una cifra sbagliata bisognava evidenziare l'errore e alla fine della “macchinata” fare la correzione manualmente.
Erano calcolatrici con la tastiera “estesa”, cioè avevano tante colonne, le unità, le decine, centinaia e così via, ognuna con tutte le cifre dall'1 al 9.





Successivamente apparvero le calcolatrici con la tastiera come la usiamo adesso, cioè con sole dieci cifre. Fra quelle che ricordo c'erano le Olivetti a farla da padrone, la Summa 15, per esempio, a manovella e che faceva anche le sottrazioni. Bisognava spostare quella specie di levetta gialla e la macchina faceva la sottrazione diretta. Quella levetta, se ben ricordo, permetteva anche di ricavare il totale e il sub-totale.



Poi vennero altre macchine, sempre più sofisticate: la manovella sparì e venne sostituita dal movimento elettrico. Oramai la sottrazione ce l'avevano tutte, ma rimaneva lo spauracchio della divisione: quella si continuava a farla con quella macchinetta della prima immagine (a patto di saperla usare). Poi finalmente arrivò la mitica Divisumma: eccola.


Era incredibile (per noi negli anni '60, naturalmente): poteva fare somme, sottrazioni, moltiplicazioni e anche le divisioni. Ma non basta: si potevano calcolare perfino i quadrati, i cubi e le radici quadrate! (Non chiedetemi come, non lo ricordo più, però ne ho calcolate).
Erano comunque tutte calcolatrici meccaniche, rumorose e che spesso buttavano caldo addosso al povero operatore. Ricordo ai miei primi mesi di lavoro, in Agosto o Settembre, che ero stato assegnato a una macchina, mi pare una Underwood, che appunto scaldava come un forno, era rumorosissima e per schiacciare il tasto per l'addizione bisognava dargli un pugno, da tanto era duro. Dopo un paio d'ore di lavoro a quella macchina mi sentii male.
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MessaggioInviato: 27 Set 2015 14:08    Oggetto: Rispondi citando

I Tram. Avevo già parlato un po' dei tram a Milano, ma adesso vorrei ampliare il discorso e parlare dei tram alla fine e dopo la fine della guerra. Innanzi tutto erano pochi, alcuni erano stati danneggiati dai bombardamenti, altri non avevano i manovratori che erano ancora prigionieri. In quel periodo (1944-1945) comparvero, fra la meraviglia generale, le prime donne tranviere. Soprattutto erano bigliettaie, ma c'erano anche alcune manovratrici.

Intanto precisiamo che per i milanesi, almeno quelli della mia età, il tram è uno solo, quello della serie 1500, il mod. 1928 che appunto ha iniziato il servizio nel 1928. Ha quindi la bellezza di 87 anni e continua egregiamente a svolgere il suo servizio. Oggi i tram hanno un pantografo per collegarsi alla linea elettrica, ma quanto abitavo a Milano usavano invece il trolley, detto dai milanesi “perteghèta”, cioè un'asta che terminava con una rotellina che scorreva sulla linea aerea. Abbastanza spesso la rotellina saltava fuori dal filo, con conseguente interruzione dell'alimentazione. Il bigliettaio allora scendeva e la sistemava fra i generali mugugni dei passeggeri ai quali si aggiungevano i suoi di mugugni, dovuti al fatto che il cavo era generalmente sporco e comunque la manovra per far rientrare la rotellina sul file era piuttosto difficile. Questo è il tram mod.1928, notare le scritte sulle porte: quella posteriori era solo per la salita, quella centrale solo per la discesa e quella anteriore oltre che per la discesa era utilizzata per la salita degli abbonati.







I tram erano quasi sempre affollatissimi: viaggiare appesi fuori era piuttosto comune, il bigliettaio con evidente malafede continuava a dire “Avanti c'è posto”, ma non gli credeva nessuno.



D'altronde, in anni parecchio precedenti, si viaggiava in maniera ancora più precaria







Per un certo periodo l'Azienda Tranviaria, vista la carenza di moneta emise dei gettoni per il pagamento della corsa come quello della foto. Ricordo di averne visti da ragazzo


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MessaggioInviato: 21 Feb 2016 15:02    Oggetto: Rispondi citando

Rimanendo almeno in parte sull'argomento tram vorrei dire qualcosa sul mitico tram noto con il nome di Gamba de Legn. Probabilmente avevo già scritto qualcosa in precedenza, ma non ho voglia di andare a cercare. Quindi scusate le eventuali ripetizioni e attribuitele alla mia pigrizia.
Il Gamba de Legn era un tram a vapore che dalla fine dell'800 fino al 1957 da Milano raggiungeva Magenta e Castano Primo.
il 9 Settembre 1878 venne firmato l'atto di concessione per la costruzione e l'esercizio di una linea Milano- Magenta. Il promotore di tutto ciò fu l'Ing. Ferdinando Pistorius, che, secondo la leggenda, ebbe l'intuizione vedendo un tram a cavalli (siamo nel 1876). Il conducente frustava senza pietà i poveri animali e il Pistorius, appassionato di cavalli, ebbe con lui una discussione, nella quale urlò che i cavalli erano di carne e non d'acciaio. L'espressione “cavalli d'acciaio” gli entrò nella mente e pensò che potessero veramente sostituire quelli di carne. Venne aperta una sottoscrizione per reperire i fondi per la costruzione della linea.




ed ecco il treno in funzione. Poteva portare fino a dieci carrozze, ognuna con 40 posti a sedere e molti, molti di più in piedi o attaccati ai finestrini...




Perché si chiamava Gamba de Legn? Niente a che vedere con lo storico nemico di Topolino. Ci sono due versioni circa l'origine del nome: la prima dice che in alcune zone il Gamba (abbreviativo usato dai milanesi) doveva essere preceduto da un ferroviere che agitava una lampada per avvisare del pericolo, e che questo ferroviere zoppicasse un po'. Da qui il sospetto che … avesse una gamba di legno. Più probabile mi pare la seconda versione: il Gamba nella sua marcia faceva un rumore un po' strano: una specie di toc to, totoc, imitando suono prodotto da un uomo con la gamba di legno. Io qui mi riferisco a quello che, per me, è l'unico Gamba, quello che andava a Magenta e Castano Primo, ma ce n'erano altri, per Vaprio, per Saronno, per Crema e molti altri.

Tra qualche giorno andrò avanti con la storia del vecchio e amato Gamba.
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MessaggioInviato: 23 Feb 2016 10:12    Oggetto: Rispondi citando

Andiamo avanti un po' con una curiosità: in tempo di guerra a Milano erano frequentissimi i black out, e se mancava l'elettricità i primi a bloccarsi erano i tram. A volte non era un semplice black out, ma proprio la linea elettrica a essere danneggiata dai bombardamenti. A riportare le motrici bloccate alle loro rimesse ci pensava il vecchio Gamba.






Nei normali treni a vapore la posizione del macchinista è posteriore rispetto alla caldaia, mentre nel Gamba è anteriore, questo perché circolando in città e in paesi abitati si è preferito lasciare al macchinista una maggiore visibilità.
Una curiosità: il Gamba faceva servizio anche alla notte. L'ultima partenza da Milano era fissata per le 0.40, in modo da poter accogliere gli spettatori dei cinema e dei teatri, che chiudevano poco dopo la mezzanotte.
Non era molto veloce il nostro Gamba: non poteva superare i 15 Kmh in aperta campagna, né i 10 Kmh in città. Se poi ci fosse stata nebbia, molto comune su quel tragitto, il limite era di 5 Kmh.

Il finale fra un paio di giorni.
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MessaggioInviato: 25 Feb 2016 16:27    Oggetto: Rispondi citando

Niente fermava il Gamba, ci aveva provato l'acqua:




e ci aveva anche riprovato…

link

( immagine del 31/5/1917 La Maddalena era un vecchio quartiere di Mlano, oggi sparito. Era pressappoco dalla parti di Piazza de Angeli)

Una delle locomotive è esposta al Museo della Scienza e della Tecnica, a Milano, e in occasione del cinquantesimo anniversario dell'ultima corsa venne ampiamente illustrata al pubblico, con una apertura straordinaria del Museo fino alle 24.

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MessaggioInviato: 29 Feb 2016 14:26    Oggetto: Rispondi citando

Per incominciare ho trovato un video (poco più di un minuto) che ritrae l'uscita del Gamba dalla sua rimessa in Corso Vercelli e un pezzetto del percorso. Eccolo:

link

E prima del Gamba? C'erano i tram a cavalli, come quelli qui sotto. Ovviamente il servizio era molto meno efficiente, due cavalli potevano trainare un solo vagone, che poteva contenere un numero limitato di viaggiatori.





Ci si domanda cosa fosse quel fumaiolo su una carrozza a trazione animale: ho trovato un paio di spiegazioni. La prima ipotizza che fosse lo scarico di una stufa installata in vettura per riscaldamento. Ipotesi poco probabile, però. Credo che se il vagone conteneva una decina di persone, queste si autoriscaldassero da sole, il famoso “calore animale”. Inoltre negli anni '40 io prendevo un trenino (elettrico) per spostarmi durante il periodo dello sfollamento e sono sicuro che non ci fosse nessun riscaldamento. Peraltro non si soffriva il freddo. Mi pare più probabile che avesse la sola funzione di aerazione dell'area passeggeri.
Questa storia finisce il 31 Agosto del 1957: l'ultimo Gambadelegn' parte da Corso Vercelli per l'ultima corsa. Sarà sostituito da un anonimo pullmann. Il treno era tutto agghindato con mazzi di fiori e passava fra due ali di folla che salutava un pezzo della Milano di una volta che scompariva.

Così finisce la storia del Gamba de legn':



Sono quasi sicuro che su uno di quei tram fermi per lasciar passare il Gamba ci fosse il sottoscritto: ho un vago ricordo della cosa.
Uno degli ultimi macchinisti del Gamba era stato Delfino Borroni, che nel 2007 alla bella età di 109 anni era ancora vivo e lucidissimo, sebbene cieco. Era andato in pensione nel 1954.
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MessaggioInviato: 08 Apr 2016 14:27    Oggetto: Rispondi citando

Oggi in televisione, mentre stavo mangiando, ho sentito la parola “falsariga” che mi ha fatto ricordare la mia infanzia. Ma che cosa è la “falsariga”? Credo che pochi fra i frequentatori di questo Forum lo sappiano e ancora meno quelli che l'abbiano usata.
Bisogna tornare un po' indietro: alle elementari, dopo aver fatto un mazzo incredibile con le aste ai poveri frugoletti, il maestro incominciava a far scrivere le lettere dell'alfabeto. E bisognava, naturalmente, stare “dentro” alle righe. No, la “f” poteva uscire, sia in altro che in basso: anche la “g” poteva, anzi doveva uscire, ma solo in basso. Anche la “p”, la “b” solo in alto eccetera.
Ma tutte dovevano stare entro gli spazi a loro assegnati, cosa abbastanza facile nei quaderni che allora si usavano (sarà ancora così? Chissà…)
Questo era un quaderno sul genere di quelli in uso in prima elementare.
Come si nota, lo scolaro stava ben attento a non uscire dalle righe, sarebbe stato considerato un errore dal maestro.





Tutto bene quindi? Finito così? No, naturalmente: finché scrivevi sul quaderno andava bene, ma quando dovevi scrivere alla zia? Non era corretto usare un foglio strappato dal quaderno: dovevi prendere un foglio bianco e lì dovevi fare attenzione! La scrittura doveva essere orizzontale, non doveva assolutamente tendere verso l'alto o verso il basso, le lettere dovevano avere più o meno la stessa altezza. Diventava difficile senza l'ausilio delle righe del quaderno, e allora si ricorreva alla “falsariga”, cioè a un foglio sul quale erano tracciate delle righe nere. Qualcosa di simile a questo:


link

Veniva messo sotto al foglio bianco della lettera e, per trasparenza, si aveva un aiuto nello scrivere stando entro quei limiti.
Non ricordo di aver più visto dei fogli falsariga dopo la fine della guerra e anche la parola falsariga ha assunto un diverso significato: adesso indica soprattutto l'agire imitando uno schema ben definito.
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MessaggioInviato: 10 Apr 2016 13:40    Oggetto: Rispondi citando

Ne sai....ne ricordi una più del diavolo !
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MessaggioInviato: 26 Apr 2016 07:43    Oggetto: Rispondi citando

Credo di non aver mai parlato dell'abbigliamento negli anni 40/50. Apparentemente non era molto diverso da quello odierno, ma a guardare bene…
Innanzi tutto le donne: solo ed esclusivamente sottane, oppure abiti interi tipo chemisier. Impossibile anche solo pensare a portare i pantaloni, e questo divieto è durato a lungo: ricordo che a mia moglie, sarà stato il 1965 o 1966, venne vietato l'ingresso alla Cattedrale di Pisa, appunto perché portava i pantaloni. D'altronde in Francia solo nel 2013 è stata abrogata la legge del 1800 che vietava alle donne l'uso del pantalone, salvo provati motivi medici attestato dal rilascio di uno speciale permesso, sotto pena di immediato arresto. È ovvio che quella legge non era rispettata da nessuno, ma formalmente era ancora in vigore fino a pochi anni fa. C'è da dire che erano ammesse due eccezioni: potevano usare i pantaloni “finché tenevano le redini di un cavallo” e, successivamente, “finché tenevano il manubrio di una bicicletta”. Come facessero poi a cambiarsi velocemente appena scese da cavallo o dalla bici, non l'ho capito.
E c'era anche un altra curiosità: chi ha mai sentito parlare dei “davantini”?
Erano delle mezze camicette femminili, cioè c'era solo il davanti e non il dietro e venivano tenute a posto con un elastico o una fettuccia. Si indossavano sotto una giacchetta o qualcosa di simile, forse un bolero. Non credo che fossero un modo di risparmiare, anzi credo che fossero abbastanza costosi perché ricordo mia zia che li preparava (anno? Probabilmente 1944) e li dipingeva con delle vernicette speciali che una volta asciutte erano in rilievo. Erano spesso disegni di fiori, foglie o simili. Mi divertiva moltissimo passare con il dito sulle parti non ancora perfettamente asciutte, suscitando naturalmente la reazione della zia…
Questo è un davantino, ancora in uso oggi per la toga dei magistrati:



E per i maschietti? Per l'uomo adulto mi pare che ci siano state delle differenze marginali: più che altro è tramontata (grazie a Dio) l'obbligatorietà della cravatta, il gilet è oggi di uso molto limitato ed è sostituito spesso da un maglione col collo a V o da qualcosa di simile, quando non è addirittura abolito.
Era praticamente obbligatorio il cappello, del tipo Borsalino soprattutto. E la giacca? Quando ho incominciato a lavorare in banca (1954) non era nemmeno pensabile presentarsi allo sportello senza aver indossato la giacca, estate o inverno che fosse.
Le cose sono invece cambiate parecchio per i ragazzi: sicuramente erano d'obbligo i pantaloni corti fino almeno ai 10-12 anni. Anche d'inverno, sicuramente. Il freddo era mitigato dai calzettoni di lana al ginocchio.
Oltre quell'età si era autorizzati a passare ai pantaloni “alla zuava”, cioè pantaloni che si allacciavano sotto al ginocchio. Avete presente Capannelle nel film I soliti ignoti? Ecco proprio quelli. I pantaloni lunghi rappresentavano il passaporto per l'età adulta. Io i primi li ho avuti a circa sedici anni.
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MessaggioInviato: 29 Mag 2016 15:40    Oggetto: Rispondi citando

E allora il Giro d'Italia del 2016 l'ha vinto Nibali, lo stesso Nibali che dopo la diciottesima tappa era dato da tutti per spacciato. Era in quarta posizione e quindi fuori dal podio. Poi in due tappe di montagna Nibali ha cambiato tutto: conquista la maglia rosa, mentre intanto le prime posizioni venivano rivoluzionate.
Non l'ho sentito dire da nessuno, ma a me ricorda tanto il Tour de France del 1949, vinto da Fausto Coppi con quasi undici minuti sul secondo (Bartali). Anche lì Coppi a causa di una caduta sembrava tagliato fuori da ogni possibilità di successo, avendo un ritardo di più di mezzora. Poi con una cronometro di quelle che si facevano allora (92 chilometri, ma in quel Tour ce ne fu un'altra, anche quella vinta da Coppi di ben 137 chilometri) e soprattutto con due tappe di montagna sulle Alpi prese la maglia gialla, sorprendendo tutti.
Solo io vedo una certa somiglianza a sessantasette anni di distanza?
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MessaggioInviato: 22 Mar 2017 09:14    Oggetto: Rispondi citando

È un po' che non scrivo qui: vediamo di rimediare, raccontando quello che per molti è un "fatterello", per me è stata la GRANDE AVVENTURA.
Era l'anno 1953, mese probabilmente Luglio: io avevo quindi quasi diciassette anni, li avrei compiuti a Settembre, e un mio amico, che avrà avuto al massimo un anno più di me, Vanni. Entrambi appassionati di ciclismo, entrambi con una bici che scalpitava nell'attesa di girare per le strade del mondo. E allora cosa fare? Ma il Giro d'Italia, naturalmente!
Adesso non capite male, non quello che fanno i corridori, con le tappe, le cronometro, la classifica finale eccetera. No, qualcosa di molto più dilettantesco: due ragazzini che in bicicletta decidono di percorrere le strade italiane e non solo, così, alla ventura. Fermandosi a dormire dove capita, a mangiare qui e là, a comperarsi il necessario per sopravvivere, a riparare la bici in caso di inconvenienti. Insomma a "diventare grandi" senza l'aiuto di mamma e papà.
Se interessa, racconterei qualcosa di quel viaggio, ricondando che eravamo nel 1953, con le strade di allora e il poco traffico che c'era.
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MessaggioInviato: 22 Mar 2017 09:32    Oggetto: Rispondi citando

Citazione:
Se interessa, racconterei qualcosa di quel viaggio, ricondando che eravamo nel 1953, con le strade di allora e il poco traffico che c'era.

Certo che interessa Smile
(ok, io parlo per me, ma non credo di essere l'unico a cui interessa Wink )
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Baffogatto
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MessaggioInviato: 22 Mar 2017 13:45    Oggetto: Rispondi citando

Dai...racconta Wink
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danielegr
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MessaggioInviato: 22 Mar 2017 17:20    Oggetto: Rispondi citando

E allora, eccomi qua con queste anticaglie: immagino che nessuno si scandalizzerà se copio spudoratamente da quello che avevo scritto tempo fa per raccontare a mio figlio di quel giro. Non trovo però l’inizio, quindi cerco di ricostruirlo.
Partiamo in bici (certo che eravamo in bici, se no come andavamo?) da Milano, direzione Brescia. I chilometri scorrono velocemente, la fatica non si sente, la libertà ci “gasa”. Brescia non ci interessa, vogliamo arrivare al Lago di Garda.
Abbiamo uno zainetto a testa: giusto un ricambio e poco altro per via del peso. Arriviamo a Gardone e, memori delle raccomandazioni dei genitori (non viaggiate come scatole, guardatevi intorno, visitate i monumenti eccetera) andiamo subito al Vittoriale. Beh, una volta nella vita si può anche fare, magari sarebbe stato meglio farlo con una buona guida da leggere e cercando di capire meglio l’ambiente, la personalità dell’abitante e via dicendo. Va bene che D’annunzio aveva l’amicizia di Mussolini e quindi non doveva essere a corto di quattrini, però la manutenzione di quel po’ po’ di monumento doveva essere piuttosto onerosa.
Trascorsa la prima sera e notte in libertà, partenza per Trento. Preciso che per la notte andavamo sempre nelle “locande” o “trattorie con alloggio”. Oggi non ne vedo più in giro: gli agriturismi e i B&B hanno preso il loro posto, ma noi (ripeto che parliamo del 1953) ci siamo sempre trovati bene: il prezzo era contenuto, la padrona del locale aveva sempre un occhio di riguardo per quei due squinternati (ma davvero venite da Milano? in bicicletta? chissà come sarete stanchi…).
Arriviamo a Trento: visita al castello del Buonconsiglio, alla Fossa dei Martiri, dove hanno impiccato Filzi e Battisti e poi a Pergine per dormire.
Domani un paio di altre tappe.
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MessaggioInviato: 24 Mar 2017 08:29    Oggetto: Rispondi citando

Questa parte sarebbe dovuta essere scritta prima: scuserete il piccolo disguido.
A Gardone ci sentivamo oramai degli esperti: avevamo superato senza danni la prima tappa, la prima notte fuori casa, i pasti arrangiati da noi (panini, cioccolato e cose simili) o in qualche trattoria di infimo ordine (ma a buon mercato) e proseguiamo baldanzosi: la Gardesana Occidentale è ( o almeno era a quei tempi, sono decenni che non capito più da quelle parti) una autentica meraviglia: il lago da una parte, le pareti rocciose dall’altra, la bicicletta che permette di godersi appieno tutto il panorama, la velocità turistica che permette di guardarsi intorno senza pericoli. Insomma: una cosa unica! E al termine della Gardesana ecco Riva del Garda, dove, su un prato sul quale ci fermiamo a mangiare, incontriamo una coppia di turisti con i quali si ride e si scherza prima di rimontare in sella.

Detto questo, ripartiamo da Pergine: la Valsugana, il Passo Rolle. È inutile dire che sono posti belli, anzi magnifici: lo sanno tutti e non è necessario ribadirlo.
Noi, giovani ragazzini (17 -18 anni) ci godiamo il senso di libertà, di autonomia di poter scegliere cosa fare senza l’aiuto dei “grandi”. Incominciamo a renderci conto che crescere vuol dire anche “scegliere”, e che se la scelta è sbagliata chi paga sei tu.
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MessaggioInviato: 30 Mar 2017 07:43    Oggetto: Rispondi

Finita la discesa dal Passo di Rolle risaliamo un pezzetto della Val di Fassa, e ci fermiamo a dormire a Soraga. Una buona dormita per scacciare la fatica e il giorno dopo decidiamo di prenderci un giorno di vacanza dalla bici: faremo una gita in montagna. Il mio amico conosceva un po’ la zona e ricordava il Passo delle Coronelle, anche se non credo che ci fosse mai andato. Beh, allora non ci sono problemi, partiamo per quel Passo. Malgrado non avessimo nessuna attrezzatura per la montagna (scarpe da tennis, magliette a maniche corte, pantaloncini corti) saliamo baldanzosi, incuranti del fatto che con quell’attrezzatura salire a oltre 2600 metri può essere pericoloso. Ma finché si sale, malgrado qualche nevaio affrontato con le scarpe da tennis, non abbiamo particolari problemi. La discesa, però, è un altro paio di maniche: decidiamo di scendere per un canalone che ai nostri occhi inesperti sembra facile, ma che facile proprio non è.
E infatti la discesa è molto pericolosa: il canalone è ripido, i sassi si muovono e cadono addosso a chi è appena passato. Ho avuta molta paura, maledicendo il momento nel quale abbiamo deciso di scendere da lì anziché ritornare per il sentiero già percorso in salita. Comunque quando oramai non ci speravo quasi più ecco la fine del canalone e il ritorno a Soraga per un comodo sentiero. E pazienza se intanto si fa buio, tanto ormai non si può più sbagliare.
Il giorno dopo, riprese le nostre fide biciclette affrontiamo il mitico Passo Sella, teatro delle imprese di Coppi, Bartali e di tanti altri campioni. Poi la meravigliosa discesa della Val Gardena.
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